“Armoniosi accenti dal tuo labbro volavano…”

Chissà in che modulazioni risuonavano gli accenti armoniosi di Luigia Pallavicini, nobildonna genovese, se estasiavano l’udito di Ugo Foscolo al punto che li ricordò in un famosa ode a lei dedicata. Possiamo immaginare un timbro vellutato, sforzarci di sentire musicalità vocaliche e afferrare leggere e rarefatte consonanti che sfioravano, quasi accarezzando l’orecchio di chi ascoltava ammaliato.
La matrice geografica di questi accenti è molto oltre lo stretto di Messina, lontano da tutta la Magna Grecia e, se si vuole superare il particolarismo regionalistico della Liguria dove andrebbero radicati dal suggerimento foscoliano, possiamo collocarli in generale nell’Italia del Nord, ignara e quasi indifferente a tutti i legami culturali e storici con la grande Grecia del passato che ogni siciliano che, ivi emigrato o turista spensierato, possa rivendicare. Anzi, sembra proprio che il siciliano che passi lo stretto e superi l’accogliente e familiare area geografica dell’Italia meridionale, insomma Napoli e dintorni, senta forte il sentimento di differenza fonetica e cerchi di italianizzare il suo parlare, tentando di conquistare, anche se affannosamente, quegli “armoniosi accenti” per lui difficili. Il primo impatto con la diversità linguistica è legato ad alcuni verbi intransitivi che ogni siciliano che si rispetti usa solo transitivamente: entrare e uscire. Per il nostro siciliano, solito dire anche in italiano entra la macchina nel garage o esci l’acqua dal frigo, si apre un mondo linguistico nuovo quando scopre che il suo improprio uso dei verbi ha nelle formule metti dentro o tira fuori un’alternativa mai presa in considerazione prima di quel momento e anche lui allora comincia a tirare fuori dal suo armadio i vestiti necessari per questa nuova koinè linguistica. Ciò che più lo colpisce, però, è la forza sproporzionata di alcune sue consonanti che, a parlare fuori dal natio borgo, sembrano non solo doppie ma triple addirittura. Lui tenta di alleggerirle, ma inutilmente; trattiene il respiro, prova a chiudere la vocale seguente, abbassa il tono di voce, ma niente da fare: le consonanti escono fuori prepotenti e superbe a dispetto di ogni regola fonetica. Se invece, in remoti casi, riesce a ingentilire il suono di alcune parole, sente un senso di estraneità a ciò che dice: la parola doccia, correttamente pronunciata, non è la stessa cosa di ddooccia, che nella sua pesante ed errata pronuncia sembra suggerire la forte pressione del getto d’acqua ovvero “sgriccio”, contro quello misero e parsimonioso evocato dalla sua forma corretta.
Il dilemma fonetico, se sottomettersi all’operazione di rarefazione consonantica, con implicita rinuncia all’orgoglio delle origini, o restare immune alla subdola tentazione omologatrice, si pone se il siciliano è un insegnante elementare che deve far fare ai suoi piccoli alunni il dettato ortografico. In questo caso non è solo una questione di identità culturale la scelta di pronunziare o no le parole in modo pieno e forte: qui bisogna essere onesti foneticamente nei confronti dei bambini che apprendono la forma delle parole da scrivere proprio dagli accenti più o meno armoniosi pronunciati dall’insegnante e corrono il rischio di scrivere addizzione, orologgio, ppi-ssi-cologo e bbambola.
Allora l’insegnante non può che scegliere saggiamente, ma anche se con pazienza certosina cerca di alleggerire i suoni come meglio può, ha sempre la sensazione di emettere qualche consonante in più del dovuto e per questo, quando incontra una gentile signora, mamma di un suo alunno, preoccupata del fatto che suo figlio non sente le doppie, ha un attimo di perplessità: la fissa e, accertatosi che nei suoi occhi non ci sia ironia o sarcasmo, la tranquillizza con parole didatticamente rassicuranti, mentre fra sé pensa nel suo amato, anche se non armonioso accento: “Si nun li senti ccu mia, so figghiu è turdu!”
Per i lettori al di fuori della Magna Grecia : “Se non le sente con me, suo figlio è sordo!”


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