Antonietta Pirandello nata Portolano (I parte)

Credo che non ci sia bisogno di una presentazione ufficiale. Il mio nome, legato indissolubilmente alla fama di mio marito, è abbastanza conosciuto anche se accompagnato da considerazioni non lusinghiere racchiuse in un un’unica e spietata parola: “pazza”. Chi sia stata veramente, il male che ho fatto, il bene che ho voluto e quello che non ho voluto lo capisco adesso, riuscendo a leggerlo in questa nuova dimensione senza tempo in cui mi trovo, in quest’attimo che “si fa eterno e abolisce ogni cosa, anche la morte, come la vita, in una sospensione d’ebbrezza divina, in cui dal mistero balzano all’improvviso illuminate e precise le cose essenziali, una volta e per sempre”. (Visita da Una giornata in meridiani vol. III 1990 Arnoldo Mondadori editore) In questa nuova dimensione che mi ha avvicinato a ciò che ho sempre fuggito, prendo in prestito le parole di Luigi Pirandello, mio marito, che riescono così bene a dare voce ai miei pensieri e questo nuovo dialogo mi ferisce come il più feroce dei rimorsi, se ripenso a quanto nella vita di un tempo proprio io abbia disprezzato la sua Arte, vantandomi con vano orgoglio di non avere mai voluto leggere niente di ciò che scriveva.
Ma ora ne ho bisogno anche per trovare un senso a questo non essere più; per trovare le parole capaci di dire la pena di non poter vivere più … “senza più il corpo, è questa pena ora, è questo sgomento del suo disgregarsi e diffondersi in ogni cosa … È questo morire”. (da “Di sera un geranio in Berecche e la guerra, Meridiani vol. III tomo I Arnoldo Mondadori editore,1990)
Paradossalmente io che non sono riuscita a vivere quando potevo e dovevo ora non mi arrendo alla morte e vorrei vivere d’altro. “ Una cosa, consistere ancora in una cosa, che sia pur quasi niente, una pietra. O anche un fiore che duri poco …” (da “Di sera un geranio in Berecche e la guerra, Meridiani vol. III tomo I Arnoldo Mondadori editore,1990)
Se non in un geranio almeno vorrei vivere nelle parole per raccontarmi. Non pretendo di trovare benevolenza, ma chiedo di non essere condannata: ci ha già pensato la vita o ci sono riuscita io, avendo già pagato non vivendo ciò che avevo avuto la fortuna di avere.
La mia storia inizia il 25 febbraio 1872 a Girgenti ed è subito segnata dalla tristezza, legandosi al filo contorto della gelosia. Restai, infatti, presto orfana perché mia madre morì di parto: la gelosia di mio padre, che sapeva renderlo brutale come una bestia, non permise a nessun medico di assisterla.
Per questo venni chiusa presto in collegio dove la mia educazione fu affidata alle suore e forse da quegli anni mi portai per sempre l’ostinato disprezzo per la sua Arte, per un’attività che non ha le solide radici concrete e che – mi dicevano – può non essere morale.
Passarono gli anni rendendo la mia età ormai adatta al matrimonio, l’unico obiettivo per me possibile, dal momento che l’idea di un lavoro mio non mi sfiorava minimamente.
Ero anche bella allora. Slanciata, con un viso regolare circondato da capelli castani e gli occhi neri come la mia anima malinconica che spesso m’intristiva senza che ne capissi la ragione.
Ero anche un buon partito: portavo in dote 70.000 lire e fu facile per mio padre combinare il mio matrimonio con il figlio di Stefano Pirandello, suo socio nel commercio dello zolfo.
Seppi così che il mio promesso sposo era un giovane scrittore, non adatto al commercio né intenzionato a restare in Sicilia: viveva, infatti, a Roma in cerca di quella sospirata fortuna letteraria che ancora non era arrivata e capii che anche io avrei dovuto trasferirmi lì. La paura di lasciare la mia casa, che all’inizio mi aveva gettato in una grande agitazione sembrò sparire quando vidi la sua foto che, facendomi innamorare subito, mi rese più sicura del mio futuro.
Il fidanzamento fu travagliato per mancati accordi tra mio padre e il futuro sposo, ma io mi ostinavo a volere solo lui e rifiutai altre proposte così che mio padre accettò il matrimonio già promesso.
Iniziò un appassionato corteggiamento epistolare, io non riuscivo a stare dietro al suo ritmo e non solo per il numero di lettere che inviava, ma anche nell’entusiasmo che mostrava. Ero avara di parole e lui se ne rammaricava. Il mio cuore non era di pietra, ma le sue parole mi spaventavano: temevo di non essere all’altezza di ciò che mi chiedeva. Lui sentiva che questo matrimonio, nato come uno dei tanti “ amori senza amore ”per la mia dote che gli avrebbe consentito di scrivere senza dipendere dal padre, diventava importante: s’innamorò veramente di me e amava il suo essersi innamorato, immaginando che io potessi riportarlo fuori dal “labirinto” in cui si era chiusa la sua esistenza.
Il 27 gennaio 1894 ci sposammo, lui era felice e lo fu anche di fronte agli imprevisti che ci accolsero a Roma: la casa di via Sistina non era riscaldata, mancavano i materassi, i bagagli non erano arrivati. Io non seppi sorridere a ciò, non riuscivo, come del resto ho sempre fatto, a essere felice solo della sua vicinanza e solo adesso capisco che invece avrei dovuto imparare a vivere con più leggerezza. Il mio difetto più grande era proprio la malinconia, che mi portava a chiudermi al presente: non riuscivo a condividere i suoi sogni artistici e disprezzavo la sua arte; non volevo ricevere in casa i suoi amici con cui amava intrattenersi in incontri letterari. Invece di aprirmi alla sua vita preferivo appartarmi in un’altra stanza dove da sola restavo a cucire e a lamentarmi tra me per quella vita che non mi apparteneva.
Ben presto arrivarono i figli, Stefano, Lietta e Fausto: tre in quattro anni dal 1895 al 1899. Di quegli anni riesco a isolare dei momenti sereni, anche se non mancavano i miei soliti sbalzi d’umore. Riuscivo anche a trovare il tempo e il piacere di scrivere alle mie cognate. Mi piaceva prendermi cura della casa e sapevo scherzare sulla mancanza di pulizia della domestica. Anche se sembrerà strano, amavo l’Operetta ed è una prova, anche se effimera, che in qualche attimo della mia vita è pur esistito un piccolo spiraglio di luce tra la mia cupezza. Crescere tre figli da sola, però, senza l’aiuto delle grandi famiglie cui siamo abituati noi siciliani, non fu facile e i miei disturbi nervosi ne risentirono. Tra l’altro i problemi economici che si presentarono mi esasperavano e mi portarono a esasperarlo: i soldi della mia dote, infatti, erano stati investiti nelle miniere di zolfo del padre che avrebbe dovuto versare 7.000 lire ogni mese, cosa che, però, non sempre avveniva con puntualità. Non si viveva agiatamente e così io non riuscivo a staccarmi dall’idea di ricchezza e concretezza che mi aveva trasmesso la mia famiglia. Riemergeva la mia fisionomia di donna strana, ritornavano le mie ombre e le mie collere, sentivo in me la forza di ossessioni che m’impedivano di dialogare con lui.
Non riuscivo ad apprezzare la sua sensibilità e la sua signorilità, anzi, mi appariva un segno di debolezza. Che pazzia! Quasi mi arrabbiavo per l’importanza che mi dava: io non ero abituata; ero stata educata a vedere l’uomo come il più forte nella famiglia e lui non era così. Non sapevo apprezzare il suo lavoro perché non portava “soldi“, anzi pensavo che non lavorasse per cose serie.
In uno dei miei scatti d’ira, il cui ricordo adesso mi è insopportabile, l’ho definito “ mignatta”, sanguisuga, sputandogli in faccia il mio disprezzo per la sua povertà e per la sua dipendenza dai miei soldi; lui, umiliato, si diede da fare e riuscì a guadagnare poche lire al mese come professore supplente al Magistero e, anche se solo nei ritagli di tempo, riuscì a scrivere non poche novelle.
Mi pentivo poi delle mie sfuriate e chiedevo di essere aiutata.
Conobbi un periodo di tregua grazie a una cura medica contro la nevrastenia che si era aggravata dopo il difficile parto di Fausto nel 1899. In quegli anni ero consapevole del mio malessere, come scrissi in una lettera, e riuscivo anche a essere tenera in famiglia e lo dimostrai.
Nel 1899 andammo in Sicilia per la nostra villeggiatura estiva, ma fummo accolti dalla sconfortante notizia degli affari di Stefano, mio suocero: le cose alla zolfara non andavano per niente bene e i versamenti della mia rendita ne avrebbero risentito. Ritornati a Roma, infatti, ne trovammo la conferma ma, anche se non ricevevamo più i soldi della mia rendita in quei giorni -era il 1901 credo- fui davvero “ amorosa e coraggiosa” , come disse lui alla sorella. La forza d’animo, però, non era la mia vera virtù e la crisi economica di Stefano che non sembrava risolversi minacciava la mia calma e la mia pace.


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