Ed è subito sera: quando Quasimodo cita di Dante

“Ognuno sta solo sul cuor della terra
Trafitto da un raggio di sole
Ed è subito sera.”

Chi potrebbe dire di non aver mai subito il fascino di trovare racchiuso in questi pochi versi un profondo e sofferto ragionar della vita e del suo drammatico svolgersi?
In questo essenziale discorso poetico, infatti, che si struttura in una semplice e asciutta terzina si ha l’idea del dramma individuale e collettivo dell’uomo che si accorge di essere fragile e condannato inesorabilmente alla conoscenza del dolore.
Che si tratti di una condizione di dolore universale quella che il poeta vuole comunicare lo si coglie attraverso il pronome indefinito “ognuno” a cui l’aggettivo “solo”, però, dà inesorabilmente l’amaro significato della solitudine: il dolore universale infatti, appare un’esperienza individuale che non si alleggerisce nella condivisione.
A rendere più amara la consapevolezza che la vita sia dolore è lo scoprire vana l’illusione che nella giovanile età aveva accompagnato il poeta, e con lui ogni uomo, di essere al centro della terra e di poter essere l’artefice del proprio destino. La scoperta determina un immane senso di sconfitta che è tanto più amara quanto più il poeta ha creduto in quel “raggio di sole” che ha illuminato la sua esistenza e che ora gli appare come un attimo di felicità provata o solo immaginata nei giorni della giovinezza spensierata e leopardianamente “vaga di speranza”. Diventa allora un raggio che trafigge e annienta perché, a ricordare il suo breve e illusorio corso mentre ci si ritrova nella triste realtà della vita, si è come sconfitti e impotenti: non si può tornare indietro e il ricordo pesa e ferisce. Nel termine “trafitto”, di sole tre sillabe, è chiuso lo stesso sentimento di dolore legato al ricordo dei giorni felici irripetibili e in questa lontananza inesorabile ancora più impressi a cui allude Francesca da Rimini quando così Dante la fa parlare nel V canto dell’Inferno: (E quella a me :)” Nessun maggior dolore/ che ricordarsi del tempo felice nella miseria;/ e ciò lo sa ‘l tuo dottore.”
Quello che Quasimodo sintetizza in tre sillabe Dante esprime in tre versi e, se si è sensibili al fascino del simbolismo che pervade la Commedìa dantesca, dove il tre è il numero fondamentale, si è spinti a credere che ciò non possa essere del tutto casuale.
Ancora al numero tre sembra rimandare Francesca in questa terzina quando sa e dice che il suo è un dolore che Dante conosce, sia nell’esperienza diretta della sua vita sia nell’immedesimazione poetica suggeritagli da Virgilio a cui lei si riferisce con parole chiare e sicure.
Il suo ricordare doloroso ci appare come un ritorno indietro nel tempo, quando era lontana dall’immaginare il suo tragico destino di dannata, allorché la vita era scandita dai “ dolci sospiri” per l’amato e quei giorni passati ma non dimenticati adesso nell’eternità della pena infernale le appaiono dolorosamente irraggiungibili. Francesca, però, non è sola nel suo infelice ricordare: sa che anche Virgilio ne ha conosciuto i segni che sono rivelati da quell’ “infandum …dolorem”che Enea è costretto a “ renovare” ricordando la sua città un tempo splendida ma irrimediabilmente distrutta. Nelle parole di Francesca e nel silenzio eloquente di Virgilio si sente la voce di Dante che, grazie alla sua forza poetica, riesce a far rivivere nella loro nostalgia, che è il dolore per un ritorno impossibile, proprio la sua, quella di un esiliato costretto a non rivedere più la sua città e condannato a vivere lontano dalla sua storia. Con questa dolce condivisione poetica che alleggerisce il peso del dolore e sembra dare conforto, l’Inferno dantesco nel pur breve respiro di una terzina ci appare paradossalmente meno tragico del “ cuor della terra” su cui Quasimodo sembra condannato a vivere in solitudine il dolore per la vita che conosce solo per un attimo la luce del sole ed è inghiottita “subito” da una “sera” troppo buia per “riveder le stelle”.


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