C’era una volta Il Natale

C’era una volta Il Natale, il mio Natale, quello vero, fatto di incontri reali, di abbracci di ritorni nella mia famiglia dove c’era ancora mio padre. Questo Natale era annunciato al telefono dalla sua voce squillante: già il primo dicembre, infatti, iniziava a fare il conto alla rovescia dei giorni che mancavano al nostro arrivo. Dico nostro perché nel Natale dei ricordi, in cui gli attimi, i sapori e le sensazioni sono così intrecciati da non riuscire più a distinguere gli anni che si sono via via sommati, mi rivedo con le mie figlie ancora piccole e abbracciate dalla tenerezza di mio padre.
L’avvento era allora la celebrazione di un’altra attesa: quella del ritorno a casa, dove mio padre ci aspettava. Lo rivedo fermo sul marciapiede davanti al portone di casa, quasi nascosto nel cappotto, con l’immancabile cappello in testa e avvolto nella sciarpa da cui appariva il suo viso che il freddo colorava di un rosso violaceo. Vedendoci,
i suoi occhi brillavano di felicità, come quelli di un bambino che sa vivere in modo assoluto la felicità del momento. Ci abbracciava e prendeva per mano le mie figlie e questa immagine mi rendeva felice perché tra le sue mani vedevo la parte migliore di me.
Se il nostro arrivo a casa avveniva nel tardo pomeriggio, capitava anche di sentire per le vie il suono dei musicanti che restituivano le antiche melodie della novena di Natale, regalando così al momento del rientro a casa la magica illusione del ritorno alla mia infanzia.
Tra abbracci con i miei fratelli e mia madre, gli affollati momenti di condivisione del caffè nella cucina e i saluti agli amici, il tempo dell’attesa correva veloce al giorno di Natale, la Grande Festa, aspettata ogni anno con lo stesso infantile entusiasmo e celebrata con una liturgia famigliare. La sua preparazione iniziava settimane prima con un preciso rituale che partiva dall’ideazione del menu e annessa organizzazione della spesa cui mio padre si dedicava con vera dedizione. Nell’uscire di casa per comprare ciò che era necessario, infatti, realizzava la sua vocazione a prendersi cura della famiglia e trovava la gioia di essere ancora capace di accudire noi figli e coccolare le sue nipoti. Se la fase ideativa del Natale gastronomico era prerogativa dei miei genitori, quella della sua realizzazione era condivisa con noi figli, nuore e nipoti e spaziava dall’aiuto in cucina alla preparazione della tavola. Quest’ultimo era un momento di particolare difficoltà che ogni anno comportava un certosino calcolo matematico tra il numero di quanti saremmo stati a condividere il pranzo di Natale e lo spazio a disposizione. Sistematicamente, visto che il tavolo rimaneva sempre quello, ma cresceva ogni anno il numero dei commensali, si partiva, non proprio metaforicamente, alla ricerca di tavolinetti da aggiungere al grande tavolo del soggiorno. Prima si bussava alla vicina e, se anche lei ne aveva avuto bisogno per un motivo non molto diverso, allora i miei fratelli li chiedevano in prestito a qualche amico barista. A questo punto seguiva la non meno difficile opera di apparecchiare la tavola che creava delle vere crisi famigliari mettendo il partito dei separatisti con me in testa, che suggeriva di apparecchiare separatamente due tavole per guadagnare più spazio, contro quello degli unitari, capeggiato tenacemente da mia cognata Enza, che in nome di un #fare comunità, lottava per una grande unica tavolata. Separata o unita, la tavola di Natale alla fine riusciva a sfoggiare sempre le tovaglie rosse, ben stirate e profumate di fresco bucato, mostrava i patti e i bicchieri del servizio buono e risplendeva delle vecchie e solide posate d’argento, pronta per il grande pranzo. Atteso con pazienza, il grande giorno finiva in un attimo tra le innumerevoli portate e l’odore del caffè che si preparava senza sosta nel pomeriggio per condividere un po’ del calore del Natale con i parenti che erano venuti a trovarci per gli auguri. La malinconia del giorno che tramontava era mitigata dall’attesa di un’altra festa, quella del 31 Dicembre, in cui il Natale sfumava, ma non finiva del tutto.
Si ripeteva il rituale preparatorio della festa e si arrivava al brindisi con cui si accoglieva il nuovo anno accompagnando gli auguri che ci si scambiava con la speranza di ritrovarci tutti insieme anche l’anno successivo. Questo era l’augurio che facevo in silenzio mentre baciavo mio padre che mi appariva ogni anno sempre più invecchiato e più fragile.
La fine del Capodanno portava con sé inevitabilmente la nostra partenza che non ci trovava mai pronti.
Mio padre ci salutava sforzandosi di apparire sereno, ma la sua voce era quasi sommessa e gli occhi tristi. Non ci accompagnava fino alla macchina che mio fratello aveva posteggiato sotto casa mentre ci aspettava per accompagnarci in aeroporto.
Si affacciava al balcone accanto a mia madre e noi, prima di entrare in macchina, alzavamo lo sguardo sulle loro figure che anche da lontano apparivano tristi e salutavamo agitando le mani. Per fortuna la distanza di cinque piani che ci separava non permetteva di scrutare il viso di mio padre che, come mia madre spesso mi ricorda, piangeva come un bambino.
La voce rassicurante di mio fratello, che, coerente al suo nome, è sempre stato il nostro angelo custode, interrompeva il nostro triste silenzio con la sua proposta di salutare il paesello con discesa lungo il corso che finiva proprio con la curva da cui appariva la Matrice. Passandovi davanti, mentre mi facevo il segno della croce, come per
un atavico e istintivo gesto, capivo che mi lasciavo alle spalle il mio paese e il Natale che mia aveva regalato.
C’era una volta il Natale e con lui c’era un tempo anche mio padre.


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