(* del termine sono stati presi in considerazione due dei tanti significati che il dizionario Garzanti riporta:
1) grande interesse o amore verso qualcosa;
2) dolore, sofferenza.
Il lettore qui è libero di scegliere l’accezione che ritiene più opportuna.)
Sulla scuola italiana tutti hanno scritto e continuano a scrivere qualcosa. A volte sono pagine nostalgiche di chi ripensa alla poesia che la scuola ha saputo regalare come ci rivela uno sguardo ai “Racconti di scuola” di Giovanni Mosca; altre volte invece sono pagine scritte con la rabbia degli innamorati delusi come quelle firmate da Paola Mastrocola che nella scuola ha creduto e continua a voler credere, nonostante lo sfacelo che ha inspiegabilmente ma inesorabilmente iniziato a disgregarla; non mancano quelle che lasciano il sapore amaro come di uno strano livore che si affaccia dietro la professionale precisione di chi ha saputo redigere veritiere statistiche con contabilità aritmetiche degli sprechi scolastici, frutto di insane gestioni, come si coglie nel libro di Mario Giordano il cui titolo “5 in condotta” ne è un non velato annuncio.
Non mancano pagine rivolte agli insegnanti come la famosa “Lettera a una professoressa” di don Milani, scritta quando quella dell’insegnante era una figura a cui veniva concessa un’incontestabile identità professionale che aveva ancora il sapore di una seria funzione educativa ed evocava un insito alone di rispettabilità di cui non pochi tra i genitori e studenti adesso fanno fatica ad avere l’idea.
È qui superfluo elencare poi i libri su cui gli insegnanti hanno studiato: lo si creda no, infatti, è un’ipotesi da tenere in considerazione che proprio loro, gli insegnanti, si siano dedicati alla loro formazione culturale e quindi professionale, anche se non ci si stancherà mai di sottolineare che quella dell’insegnante non è una professione come le altre che si può esercitare solo con titoli conseguiti, ma un mestiere che trasforma ontologicamente chi lo svolge prima di diventare una consuetudine deontologica.
E non è facile essere insegnanti né così scontato.
Non bastano, infatti, i moniti pedagogici della Montessori o di Decroly, né i richiami di Piaget sulla necessità di conoscere il mistero dello sviluppo completo del bambino, elemento imprescindibile per permettergli ogni forma di apprendimento; non si è sicuri nemmeno se si può vantare una solida e onnisciente preparazione, ma bisogna, superare la vera prova iniziatica: entrare in classe.
Come ogni iniziazione che si rispetti anche la prova che il futuro insegnante deve superare ha le sue difficoltà che cambiano in relazione all’età dei guerrieri-studenti con cui confrontarsi in “singolar tenzone”.
Se il campo assegnato è quello della scuola secondaria allora la bravura consisterà nell’affrontare, rimanendo indenni, prima lo sguardo indagatore più di una tac dei suddetti guerrieri, poi sentire un inspiegabile entusiasmo a voler rimanere in classe in quel momento e continuare per i giorni futuri, provando anche a sfidare l’indifferenza in cui si è intanto trasformata la forza dell’iniziale sguardo dei giovani discendi.
Per la scuola elementare, invece, la difficile prova iniziatica si svolge non il primo giorno in classe ma nei giorni che lo precedono, scanditi dai funambolici e reiterati tentativi di formulare l’ORARIO dove incastrare disponibilità di palestra, laboratori e la presenza in più classi degli insegnanti specialisti, che, vista la non ancora acquisita competenza dell’ubiquità, rende tale operazione una delle meno semplici.
Riuscendo, però, a superare questa prova il passo per sentirsi insegnanti è vicino. Anzi può anche capitare che il battezzando, didatticamente parlando, senta di essere un insegnante magari quando su una sedia, di cui si è accontentato non essendo riuscito ad ottenere l’ambitissima e preziosissima scala dell’istituto, sta, martello in una mano e puntine nell’altra, per attaccare al muro le classiche lettere dell’alfabetiere murale per i futuri alunni di prima di cui prova a immaginare i volti, mentre pensa con nostalgia a quelli che ha lasciato.
A questo punto, mentre il suono della campana ci ha appena riconsegnato un altro anno scolastico, sembra quasi naturale rivolgere vecchi e nuovi auguri a tutti gli insegnanti.
A chi, stanco, continua a fare i conti alla rovescia per la meritata pensione e a chi, invece, calcola punteggi sibillini nell’attesa sempre più vana di entrare in ruolo.
A chi è ancora animato dal sacro fuoco dei progetti scolastici e riesce ancora a sperare di cambiare tutto ciò che non va e a chi vive con indifferenza i suoi giorni nella scuola forse perché è rimasto troppe volte bruciato dalla sua stessa passione di cambiarla.
A chi riesce a mantenere la calma e mostrare sempre uno stoico autocontrollo e a chi si inferocisce per un altro scritto con l’apostrofo, ma poi, dopo il suo urlo didattico, non è capace di dare severe punizioni.
Agli insegnanti delle superiori e alle loro battaglie da moderni gladiatori nelle arene scolastiche e ai maestri elementari. A questi ultimi è bene riservare auguri particolari: perciò, nonostante la nuova mania che vorrebbe trasformarli in tuttologi e chiamarli asetticamente “insegnanti della scuola primaria” l’augurio più bello che si possa fare è che, riuscendo a sottrarsi alla tentazione di guardare come unico modello l’irraggiungibile Pico della Mirandola, eclettico conoscitore dell’umano sapere, possano ancora voler somigliare al più semplice maestro Perboni che si muove con una delicata e nello stesso tempo profonda bontà nella pagina di Edmondo de Amicis che, per chi avesse ancora voglia di leggere, viene qui riportata.
Il nostro maestro
18, martedì
Anche il mio nuovo maestro mi piace, dopo questa mattina. Durante l’entrata, mentre egli era già seduto al suo posto, s’affacciava di tanto in tanto alla porta della classe qualcuno dei suoi scolari dell’anno scorso, per salutarlo; s’affacciavano, passando, e lo salutavano: – Buongiorno, signor maestro. – Buongiorno, signor Perboni; – alcuni entravano, gli toccavan la mano e scappavano. Si vedeva che gli volevan bene e che avrebbero voluto tornar con lui. Egli rispondeva: – Buongiorno- stringeva le mani che gli porgevano; ma non guardava nessuno, ad ogni saluto rimaneva serio, con la sua ruga diritta sulla fronte, voltato verso la finestra, e guardava il tetto della casa di faccia, e invece di rallegrarsi di quei saluti, pareva che ne soffrisse. Poi guardava noi, l’uno dopo l’altro, attento. Dettando, discese a passeggiare in mezzo ai banchi, e, visto un ragazzo che aveva il viso tutto rosso di bollicine, smise di dettare, gli prese il viso tra le mani e lo guardò; poi gli domandò che cosa aveva e gli posò una mano sulla fronte per sentir s’era calda. In quel mentre un ragazzo dietro di lui si rizzò sul banco e si mise a fare la marionetta. Egli si voltò tutt’a un tratto; il ragazzo risedette d’un colpo, e restò lì, col capo basso, ad aspettare il castigo. Il maestro gli pose una mano sul capo e gli disse: -Non lo far più. – Nient’altro. Tornò al tavolino e finì di dettare. Finito di dettare ci guardò un momento in silenzio; poi disse adagio adagio, con la sua voce grossa, ma buona: -Sentite. Abbiamo un anno da passare insieme. Vediamo di passarlo bene. Studiate e siate buoni. […] Io vi voglio bene, bisogna che vogliate bene a me. Non voglio aver da punire nessuno. Non vi domando una promessa a parole; sono certo che, nel vostro cuore, mi avete già detto di sì. E vi ringrazio.- In quel punto entrò il bidello a dare il FINIS. Uscimmo tutti dai banchi zitti zitti. Il ragazzo che s’era rizzato sul banco s’accostò al maestro, e gli disse con voce tremante: – Signor maestro, mi perdoni.- Il maestro lo baciò in fronte e gli disse: -Va’, figliuol mio.-
Riduzione tratta da E. De Amicis, “Cuore”
Edizione di riferimento Newton Compton, Milano 1994
Bibliografia
Giovanni Mosca, Ricordi di scuola, Rizzoli, 1963
Mario Giordano, 5 in condotta, Mondadori 2009
Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo, Guanda, 2018
Lorenzo Milani, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 2015
E. De Amicis, “Cuore, Newton Compton, Milano 1994
Scuola…che passione*
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