La solitidine di don Peppantonio

Che non fosse facile la vita di  don Peppantonio, il protagonista dell’omonima novella di Luigi Capuana, lo si capisce  dall’elenco delle sue azioni quotidiane con cui ci viene subito presentato” Sì, zappava, arava, potava, faceva ogni lavoro campagnolo come un contadino..” . Si ha subito l’impressione, però, che egli sia solo in questa sua faticosa esistenza  che, per essere compresa del tutto,  ci spinge a fare un salto  indietro nel tempo e immaginarla in un piccolo paese siciliano subito dopo l’unità d’Italia: qui sarà facile ritrovare in don Peppantonio la solitudine storica  in cui il nuovo stato aveva lasciato tutti i contadini  meridionali materializzandosi solo per esigere nuove e pesanti tasse. Sembra di vederlo e compatirlo allora  …” quando il suo povero asino affondava nella melma fino alla pancia e bisognava gridare : – Aiuto, santi cristiani! – e tirarlo su per la coda e lavargli d’addosso il carico di legna, don Peppantonio diventava rosso come un peperone ……e mandava accidenti al sindaco, agli assessori, all’esattore, al ricevitore, a tutti…anche a Vittorio Emanuele, che avrebbe dovuto pensarci lui a far le strade buone, come si metteva in tasca i quattrini delle tasse … !”

Nella sua rabbiosa, ma in fondo giusta, protesta don Peppantonio è solo non trovando nessuno con cui condividerla pur nel suo piccolo paese che anzi si trasforma in una coralità pettegola dove i vari personaggi più rappresentativi del vivere sociale come il canonico, il farmacista, il ragazzo di bottega, si divertono a stuzzicarne gli sfoghi e le imprecazioni, senza essere capaci di comprenderne le ragioni.

“Lo facevano a posta per stuzzicarlo, ogni volta che don Peppantonio andava a sedersi nella farmacia o su gli scalini del Collegio di Maria, per godersi il sole, ed era uno spasso.

Egli gonfiava, sbuffava un buon pezzo, mordendosi la lingua per non sparlare e, all’ultimo, quando scoppiava come una bomba, chi ne toccava, ne toccava. La sua linguaccia lasciava il bollo, come un bottone di fuoco”.

Le sue parole infuocate d’ira don Peppantonio non le risparmia neanche al Padreterno che sembra prendersi gioco degli uomini mandando la pioggia quando si ha bisogno del sole e negandola quando “le campagne fanno piangere”, dandoci così l’idea 

 che  la sua solitudine sia divenuta  esistenziale configurandosi come lo scontro dell’uomo solo contro Dio. Nella sua irruenza contadina, allora, non può che trovare semplici parole che dal confronto della sua quotidiana e inesorabile fatica con la vita terrena di Cristo diventano,  nell’ immediata e umana accusa del torto subito, quasi tragicomiche:

 “ Voi, Signore, quando andavate pel mondo non dovevate pensare a niente, non facevate niente. Io, invece, zappare, arare, seminare, mietere, trebbiare, lavorare peggio di un animale, se non volevo crepare di fame. Voi, con tanto di faccia tosta, vi presentavate in casa altrui, e dovevano imbandir la tavola per voi e pei vostri discepoli.

Mancava il vino? Mutavate l’acqua in vino. Io, invece, dovevo comprarlo, e mezzo aceto, quando avevo i soldi per comprarlo”.

 Gridare la sua rabbia è l’unica cosa che don Peppantonio può fare: sa, infatti, che in questa lotta impari contro il Padreterno a cui la vita lo costringe  non può vincere, ma  non si fa piegare dalla paura. Neanche dopo la polmonite che quasi l’aveva ucciso, si rassegna ad accettare “l’ingiustizia” divina: anzi alle parole del canonico che in quella malattia aveva visto un segno del castigo divino si infuoca di più e grida: ”O che Domineddio deve prendersela con me, verme di terra?…Dovrebbe prendersela  con un Dio pari suo; allora  andrebbe bene.”

Don Peppantonio sa anche che tutta l’umanità subisce il suo stesso torto in un eterno avvicendarsi di tempi e per questo nella sua rabbia dà voce a quella di tutti gli uomini la cui pazienza è messa quotidianamente alla prova.  Lo fa, sorprendendoci, con un riferimento biblico, retaggio dei suoi giovanili studi in seminario, così continuando: “…So che Giobbe gliele spiattellò chiare e tonde a Domineddio. E fece benissimo; perché il Signore si abusa della propria potenza e ci manda addosso tanti malanni che non li sopporterebbe neppure un macigno. Egli se ne sta lassù, in paradiso, fra gli angioli e i santi che cantano e suonano, e fa orecchi di mercante quando gli gridiamo:”Dacci il nostro pane quotidiano!”. 

Quello che è inaccettabile per il nostro protagonista è proprio l’ingiusta imperturbabilità divina di fronte alla fatica dell’uomo, ma  ciò non mette in discussione  “ le cose sante e giuste”  come il rosario, la messa e la confessione  per “il santo precetto della Pasqua”  che a lui “piacciono”.

Personaggio contradittorio don Peppantonio: a volte blasfemo,anche se fervente praticante; all’apparenza burbero e irruente, ma in realtà buono e dall’animo delicato che, avendo una mattina di gennaio  trovato una creatura avvolta fra due stracci  dietro la porta del Monastero Vecchio,  non aveva esitato a portarla a casa sua. Nonostante la disapprovazione di donna Rosa, sua sorella, l’aveva  cresciuta come se fosse sua figlia provando un profondo e pudico affetto.

Cresciuta in fretta la sua Tegonia, don Peppantonio sogna per lei un buon matrimonio e per ciò non vuole neanche sentir parlare di Pietro, lo sfaccendato figlio di mastro Mommo, il ciabattino, che invece, ricambiato, le gira intorno.  Le cose, però, non vanno come don Peppantonio avrebbe immaginato e, quando Tegonia una notte fugge di casa proprio con Pietro, don Peppantonio non regge al dolore.

“ E mentre egli moriva, colei ch’era stata da lui raccolta appena nata…e cresciuta e amata come una figliola…domandava sorridendo al suo Pietro: – Mi vuoi bene?-“.


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