La letteratura, oltre a essere da sempre un tormento per la maggior parte degli studenti di tutti i tempi, è sempre apparsa uno specchio fedele della vita quotidiana, non solo per il fatto che rivela le sfumature del pensare e del parlare più complesso, ma anche perché sa informarci delle mode, delle abitudini e delle professioni più comuni. Tra quelle di casa nostra ce n’è una in particolare che appare più familiare e che contemporaneamente rappresenta meglio la donna nel suo percorso di emancipazione culturale e quindi socio-economica: quella della maestra. Amata e idealizzata o accusata e rifiutata, la figura della maestra si diffonde in Italia subito dopo l’Unità quando la scuola elementare pubblica e obbligatoria diventa un elemento fondamentale dello Stato Unitario, volto al processo di alfabetizzazione nazionale. Insomma l’esigenza di avere più insegnanti con cui contrastare l’analfabetismo apre le porte alle maestre che in questo ruolo possono realizzare l’ontologica attitudine materna e domestica, l’unica che si è ancora in grado di riconoscerle. Dalla società alla letteratura il passo è breve e così la maestra che per la sua giovane età è ribattezzata la “maestrina”, diventa personaggio letterario, conquistando una sua immortalità artistica grazie alle pagine di narrativa che la ritraggono.
L’elenco delle opere che parlano della maestra è veramente lungo pertanto è stato necessario fare una scelta che tuttavia, anche nel limitato numero di esempi, ci aiuta a seguirne il cammino nella storia.
La prima che ci viene incontro in questa passeggiata letteraria è la vecchia maestra Cristina che dalle novecentesche pagine di Giovanni Guareschi viene fuori in tutto il suo ottocentesco carattere come … una donnetta piccola e magra che tutti avevano sempre visto perché aveva insegnato l’abbiccì ai padri, ai figli e ai figli dei figli, e adesso viveva sola in una casetta un po’ fuori dell’abitato e ce la faceva a tirare avanti con la pensione soltanto perché, quando mandava nelle botteghe a comprare mezz’etto di burro o di carne o altra roba da mangiare, le facevano pagare il mezz’etto ma gliene davano due o tre etti.
Di certo la maestra Cristina era considerata un monumento nazionale non per la sua forza economica: solo il suo rigore morale di cui l’aspetto didattico era un riflesso, infatti, l’aveva portata a fare soggezione a tutti e a non esitare a segnare con il lapis rosso e blu gli errori trovati nel manifesto scritto dal sindaco Peppone, il suo vecchio e non proprio brillante alunno, e a scrivervi 4 e Asino!
Mentre immaginiamo la scena della pubblica fustigazione ortografica ecco che dal deamicisiano mondo scolastico con un’esuberanza tutta giovanile vediamo correre davanti a noi la “maestrina dalla penna rossa”. Nonostante sia nata da una scrittura più antica di quella da cui è stata disegnata la maestra di Giovanni Guareschi tuttavia appare più giovane. È sempre allegra, tien la classe allegra, sorride sempre …; poi, quando escono, corre come una bimba dietro all’uno e all’altro, per rimetterli in fila, e a questo tira su il bavero, e a quell’altro abbottona il cappotto perché non infreddino, li segue fin nella strada perché non s’accapiglino, supplica i parenti che non li castighino in casa e porta delle pastiglie a quei che han la tosse… e ritorna a casa ogni giorno arruffata e sgolata, tutta ansante e tutta contenta.
La giovane età delle maestre non è sempre un motivo di allegria: l’inesperienza con cui affrontano i
primi incarichi lontano da casa può anche rendere più penosa la loro esistenza. Anche se riconosciute istituzionalmente, non sempre sono accettate dalla comunità in cui vengono a trovarsi e spesso devono sopportare grossolanità e irriverente sarcasmo. Appaiono allora tristi e infelici, quasi invecchiate nonostante i loro vent’anni, come Assunta, la maestrina dei primi del Novecento che incontriamo in una novella di Federico Tozzi.
Non era brutta: aveva i capelli sottilissimi e morbidi, quasi senza nessuna pettinatura…Aveva gli occhi azzurri e così tristi che parevano oscuri.
Sembra quasi che voglia rendersi invisibile pur di sfuggire alle risate ostili degli avventori dell’osteria dove lei è solita andare e lo capiamo dalla semplicità dimessa con cui, per cancellare ogni traccia di apparente eleganza, …portava un grembiulino come fanno le alunne a scuola e dalla timidezza con cui parla, come se chiedesse il permesso agli altri.
Della pesante condizione cui le maestre sono costrette dal regolamento vigente che non esita a mandarle in posti lontani anche dalla loro regione di appartenenza si fa portavoce proprio Tozzi affidando a uno dei protagonisti della novelle le sue riflessioni che risuonano come un appello… Per far la maestra in questi posti, dovrebbero prendere una nata proprio qui.
Non mandatecele di lontano, dalle città. …Come vuoi che ci possa vivere?
Non è difficile neanche immaginare dove possa vivere la maestrina tozziana che di certo non abiterà in una casa comoda, ma avrà a disposizione qualche semplice stanza. Proprio come ci conferma la pirandelliana maestrina Boccarmè quando dice: La mia casa?…Io non ne ho. La casa della scuola. Un anditino, una cameretta (sì bella ariosa)e una cucinetta, che mi ci posso appena rigirare.
Proprio in questa camera di monacale semplicità spicca un ritratto cui aveva comprato quella cornice da quattro soldi e non perché lo vedessero gli altri lo aveva appeso lì alla parete, ma per sé, per sé unicamente, quasi per far vedere a se stessa che ….c’era stato davvero – eccolo là- un uomo nella sua vita.
Anche se le l’aveva lasciata, tradendo la sua promessa di sposarla e ne aveva fatto scempio per un capriccio momentaneo con lui aveva sentito veramente di vivere e adesso nella solitudine della sua camera mentre lo guarda si sente meno sola e meno vecchia quasi mendicando un ricordo di vita.
Così Miriam Boccarmè, delicata creatura letteraria,
ci restituisce una nuova immagine della maestra di fine Ottocento: non solo algida vestale della propria reputazione ma una nuova figura di donna innamorata anche se non ricambiata.
Tra “amori senza amore” e solitarie esistenze intanto la maestrina tra Otto e Novecento procede per la strada, pur lenta e difficile verso l’emancipazione che per Annuzza, protagonista di” Vecchia storia…inverosimile”, il romanzo di Elvira Mancuso, ha innanzi tutto il sapore di un riscatto economico.
La grande speranza, che infondeva coraggio alla madre e alla figlia, era la stessa: cioè, che Annuzza potesse diventar maestra, e così- pensavano loro- mettersi in grado di guadagnare “lautamente”, senza star soggetta, come le serve , e senza sfacchinare come le operaie.
A costo di enormi sacrifici Annuzza riesce a frequentare il convitto di Caltanissetta e ottiene la Patente di maestra, ma, per la fine tragica cui la destina la sua autrice, non fa in tempo ad assaporare la possibilità della sua rivincita sociale né tantomeno la libertà esistenziale.
Ancora nella prima metà del Novecento la nostra maestrina è una figura socialmente debole per la miseria di stipendio e storicamente fragile per la subordinazione alle autorità politiche e amministrative cui deve sottostare: deve, infatti, rispettare rigide regole morali e adeguarsi all’ideologia politica vigente se vuole ottenere il rilascio dell’attestato di moralità da cui è condizionato imprescindibilmente il posto di lavoro
A dimostrarlo in tutta la sua evidenza è la maestra di Pietrasecca, l’abbruzzese villaggio in cui Ignazio Silone ambienta il suo romanzo Vino e pane. La signorina Patrignani, però, invece di attirare il lettore con una sorta di simpatia affettiva, lo respinge con la sua orgogliosa superbia mostrata verso i contadini del villaggio, mentre la sentiamo quasi leggere a voce alta e stridula “Le notizie di Roma” o dire della gente semplice a lei intorno che è molto ignorante e se ascolta una persona istruita… capisce quasi sempre il contrario.
Non meno irritante l’autore la fa apparire quando la descrive nel pieno del suo totale vassallaggio filogovernativo.
La maestra recava sul petto, sopra il cuore, l’emblema del partito governativo. Tra una frase e l’altra ella sospirava profondamente e l’emblema tricolore sobbalzava come una barchetta su onde agitate.
Sembra che la tanto sospirata indipendenza delle maestre debba fare i conti con la storia e aspettare tempi più maturi per una sua piena realizzazione fino a quando, sul finire degli anni Cinquanta, dalle pagine dell’autobiografico “Diario di una maestrina” di Maria Giacobbe non viene ad affascinarci una dinamica e forte figura di maestra, reale e letteraria insieme. Tra le pagine in cui è descritta la vita dei suoi piccoli alunni nel Nuorese si sente la nuova forza che la maestra ha acquistato e non solo nel porsi come punto di riferimento per le famiglie povere e disagiate, ma anche nel sapere diventare una figura autorevole e “simpatica” ai numerosi alunni scatenati, come lei magistralmente sa qui descrivere.
I bambini erano ventisei e…la prima settimana mi fu molto faticosa; il maestro che sostituivo…doveva essere molto amato dai suoi allievi che guardavano me come usurpatrice…
Mi sforzavo di “svolgere il programma”, mi sforzavo di essere piacevole, cercavo di divertirli…niente! Tutto urtava contro il ghiaccio della loro antipatia.
Finalmente un giorno, la terra o il cielo mi vennero in aiuto sotto forma di una grande biscia…
A un tratto strisciò dentro l’aula…
Quando fu …sotto la lavagna, con la rapidità silenziosa e repentina del gatto un ragazzo del primo banco le si gettò sopra con le mani aperte e la catturò…
Era il mio momento. Anche io sono cresciuta in campagna e da bambina mi piaceva giocare con le bisce. Perciò non ebbi difficoltà ad impadronirmi del rettile…
Io non solo non ero scappata come qualunque altra avrebbe fatto, ma la toccavo senza ribrezzo e l’ammiravo.
A volerne dare una lettura più approfondita quello della maestrina Maria Giacobbe sembra allora l’allegorico racconto di una vittoria più importante.
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