Tra le tante attività da cui le donne di qualche tempo fa erano escluse, oltre a quelle ritenute socialmente maschili, c’era anche la scrittura, intesa come vera e propria attività letteraria. Di questa esclusione, creduta inconfutabile, si fece portavoce anche Benedetto Croce che, agli inizi del XX secolo d.C., sosteneva che le donne, appunto perché tali, non potessero entrare nella letteratura: insomma le donne potevano scrivere, se ne avevano voglia e ne fossero capaci, solo nei loro diari o nei loro romantici epistolari, senza lasciarsi stuzzicare da velleità letterario-professionali.
Tra l’Ottocento e il Novecento, però, nonostante l’idea crociana di letteratura, il mondo dell’editoria si apre alle donne, a testimoniare che quella della scrittura non era solo passione o abilità maschile. Se il manuale della letteratura italiana su cui molti di noi hanno studiato, “il Petronio”, ci ha dato estese informazioni solo su poche autrici degne di essere inserite nel programma ministeriale, come Matilde Serao e Grazia Deledda, tuttavia non poche donne scrivevano e riuscivano a far pubblicare i loro lavori.
Alcune firmavano i loro scritti con il vero nome, come Sibilla Aleramo, Ada Negri, Carolina Invernizio e Caterina Percoto, altre preferivano nascondersi o impreziosirsi dietro un falso nome come la Marchesa Colombi, Neera o Jolanda.
Questa presenza femminile nel panorama culturale continentale tra l’Otto e il Novecento ha una sua eco anche in Sicilia dove si struttura una narrativa femminile che ci suggerisce, sugli altri, i nomi di Maria Messina, Adelaide Bernardini Capuana ed Elvira Mancuso.
‘Unn’è cosa ‘ppi fimmini…(“GALANTE” DEFINIZIONE DI LETTERATURA”)
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