A lezione da Esopo: uno “scecco” per ogni occasione

L’attribuire virtù o vizi agli animali per riferirli agli uomini è vecchia storia: lo scrittore greco Esopo già nel VI secolo a.C. nelle sue favole o MUTOI aveva antropomorfizzato numerosi animali per simboleggiare quasi tutte le sfumature psicologiche possibili. Proprio dal ricco elenco esopiano viene preso in prestito l’animale che per eccellenza la “lingua siciliana” elegge a simbolo dell’umano agire e pensare: l’asino ovvero ‘u sceccu. In realtà nel mondo di Esopo si affiancano leoni, volpi, agnelli, lupi e non pochi altri animali, ma dell’asino viene fuori un variegato repertorio psicologico che ne sfata la diffusa catalogazione nella categoria della pazienza.
L’asino, infatti, ora è invidioso del cibo del mulo o della voce delle cicale; ora è dannosamente astuto, come nel caso dell’asino che portava il sale; talvolta è anche vanitoso per doti che non ha.
Il siciliano traduce le immagini e le caratteristiche della favola greca in brevi ed efficaci espressioni, “detti”, modi dire, proverbi in miniatura adatti alle varie occasioni della vita.
Si vuole – sarebbe meglio dire si voleva perché adesso il buonismo verbalmente corretto non lo permette più – sottolineare la poca attitudine allo studio di un alunno, di un figlio? Ecco il paragone asinino già bell’e pronto: Sceccu quazatu! Lo “sceccu” quazato suggerisce l’immagine dell’asino vestito come un essere umano che, nell’ossimoro delle due realtà, quella bestiale e quella umana, rende ancora più evidente l’ignoranza mascherata. A esaudire la legittima domanda sull’attendibilità della premessa a proposito della relazione tra fonti greche i proverbi siciliani sullo “sceccu” giunge il racconto esopiano dell’asino che si riveste della pelle di un leone per spaventare gli animali, ma che non riesce a ingannare la volpe che lo aveva sentito ragliare.
Se, invece, si è di fronte a una persona di dubbie capacità e doti personali, ma che, vivendo in un contesto particolare o risplendendo di luce riflessa, ostenta un orgoglio e una vanità esagerati si può adoperare l’espressione Sceccu/a di Gerusalemme. La contestualizzazione storica dell’espressione ci riporta al racconto evangelico dell’ingresso di Gesù nella città di Gerusalemme a dorso di un asino, tra le acclamazioni di esultanza della folla, mentre l’allusione popolare si serve di questa immagine per svelarci la vanità della bestia che credeva rivolte a sé le manifestazioni di lode. Anche quest’immagine è presa in prestito da Esopo nel cui racconto si parla di un asino che, fedelmente al mondo pagano del tempo, porta la statua di un dio; entra in una città e, credendo che la gente rivolga a lui le lodi con cui accoglie la divinità, inorgoglitosi, si mette a ragliare rifiutandosi di procedere.
Nel caso in cui si vogliano chiarire inequivocabilmente le proprie posizioni, rivendicando diritti al di là di legami sociali o parentali viene in soccorso il famoso detto: “ ‘U cumpari è cumpari, ma’ u sceccu da vigna l’amu a livari”. In quest’espressione, in verità, l’asino non incarna un difetto particolare dell’elenco espiano, ma, presentandosi in uno stato di assoluta passività e dipendenza dal padrone, fa mostra di quella che, al di là del modello greco di riferimento, sembra riconosciuta nell’immaginario popolare come caratteristica principale che ne stabilisce la dimensione ontologica prima che psicologica: la pazienza. Tra gli asini pazienti e costretti a sopportare il peso loro imposto, però, c’è una categoria più penalizzata: ‘u sceccu de issara”, il cui carico, se è corretta l’identificazione con il gesso, non doveva essere certo fra i più leggeri.


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